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Life’s a pleasure, and love’s a dream | Down South in New Orleans

La prima volta che un americano mi ha chiamata sweetheart ero in Illinois, nel cuore del Midwest, era di sabato e io stavo parlando con Doc: superati i sessanta, Doc era il medico in pensione di un paesino di campagna sgangherato chiamato Danville e la sua dolcezza, insieme a un rassicurante comportamento metà paterno metà cowboy, aveva fatto breccia nel mio cuore con potenza fulminante. Quando fu il momento dei saluti piansi tantissimo e lui mi disse: “Ci vediamo presto, sweetheart, non ti preoccupare.”


A parte la bellezza della parola sweetheart, sentita tante volte nei film e nelle canzoni e associata sempre a momenti di semplice e umana tenerezza, a conquistare totalmente il mio (dolce) cuore erano state la spontaneità e l’informalità con cui lui mi aveva trattato. Con cui lui aveva trattato tutti noi del gruppo. Che bello non avere paura di esporsi. Che bello essere diretti e non avere barriere di contatto tra un essere umano e l’altro. Che bello trasmettere a un’altra persona la tua simpatia, la tua vicinanza, anche in assenza di storie decennali alle spalle. Io uso molto i vezzeggiativi e gli appellativi di tenerezza, e sono terribilmente felice quando qualcuno li rivolge a me.


Fine della parentesi Midwest.

Mettiamo piede in Louisiana.


“Hey, baby, how’re doing today?”: al bar. “You’re so fancy, babe: al fast food in attesa di ordinare da mangiare. “Don’t worry, honey, I’ll take care of it”: salendo sul bus per l’aeroporto e non sapendo che fare della mia valigia. “It goes right back on your card, babe“: dal benzinaio, appena realizzato di aver messo troppi soldi con la carta di credito nel distributore.


segregated bywater
Dal lato sinistro i neri, dal lato destro gli hipster.

Se per l’Illinois era stato facile ricordare il primo appellativo di tenerezza, in questa terra di magia, mistero e foschie che è la Louisiana è stato impossibile tenerne il conto. Ben arrivata nel nero sud, piccola sweetheart, qui sentirsi parte di un’unica umanità, nonostante la crudeltà delle differenze che vedi operare dappertutto, è sorprendentemente facile. Casa loro è casa tua e la magia della terra passa da loro a te attraverso una semplice parola: una parola che qualsiasi forma abbia vuol dire generosità.


french quarter
I palazzi del French Quarter

Quando io e Valeria siamo arrivate a New Orleans era Carnevale e tutto era eccessivo. Un quartiere che dovrebbe essere un gioiello, il French Quarter – centrale, turistico, ereditiero dell’eleganza francese che qui ha dominato per secoli lasciando i puritani e gli anglosassoni per una volta fuori dai giochi – era invaso da flotte di americani bianchi ubriachi di tutte le età che al posto del dolce cuore avevano messo il vuoto e che invece di festeggiare eruttavano grettezza. Peccato – abbiamo pensato mentre percorrevamo la via più famosa di New Orleans, Bourbon Street – noi che siamo sempre a caccia dell’autentico qui non sappiamo proprio che fare.


mardi gras
Mardi Gras in Bourbon Street, French Quarter

Abbiamo vagato per un po’, in silenzio e sbigottite dall’intorno. Sapevamo di essere in qualche modo noi fuori posto (forse il jet-lag, forse quelle poche e improvvise ore a New York che avevano sballato tutto, forse la misteriosa crudeltà di Dee che ci aveva lasciato addosso la nebbia di uno strano incantesimo), ma sapevamo anche che non era tutto lì quello che ci aveva attratto verso la Louisiana: cos’erano tutte quelle collane lanciate dai balconi? Cos’era questo bisogno di eccesso, abbondanza, colore, chiasso? Chi sono questi, e da dove arrivano?

Loro sono gli americani medi in vacanza, sweetheart. Gira l’angolo che le risposte le trovi.


people of nola during mard gras

Nell’esatto momento in cui New Orleans ha smesso di essere la terra di mezzo in cui non esistono regole se non quelle del gretto, nell’esatto istante in cui abbiamo realizzato che nel gioco degli equilibri del mondo e a parità di esuberanza questa volta vince il nero e non il bianco, nell’esatto secondo in cui lo sguardo è stato rapito dal Mississippi e dalla folla afro che si radunava danzante, cantante e straboccante su una delle sue sponde, è stato allora, in quell’esattezza fatta di collanine e collanone attaccate a corpi nuovi e vibranti, che The Big Easy ci ha rivelato il suo senso e spalancato il suo animo: questa città è fatta sì per il piacere, l’amore e il sogno; questa città è fatta sì per la musica, la festa e la gioia.


Questa città è  fatta sì per tutto questo, ma solo dopo che la sofferenza del momento è stata sconfitta. Schiavitù, povertà, disuguaglianza, uragani, razzismo, oblio: questo storia non è la vostra, sweetheart. Ascoltala per come te la racconto, conoscila per come te la mostro, non dimenticare di festeggiarla perché se lo merita.


post katrina house
L’acqua dal cielo, dal mare e dal fiume invade le case di pesci oggi meravigliosi

Oggi, a 10 anni dall’uragano Katrina, New Orleans è una città che non aggiusta tutti i segni del disastro ma sceglie di ricostruire quello che può partendo dall’elemento per lei più facile e immediato, dall’elemento più gioioso: la musica. Ovvero la tradizione più salda a cui l’intero stato della Louisiana rende omaggio senza soluzione di continuità da secoli e per tutti i secoli a venire.

musicians in the french quarter

Oggi, a 150 anni esatti dall’abolizione della schiavitù (la Louisiana firmò la ratifica del tredicesimo emendamento il 17 febbraio 1865), Crescent City è una città che colma i suoi abbondanti angoli di disagio con la naturalezza di chi abbina il bianco e il nero – il bianco, il nero e tutti gli altri colori – a seconda del significato che creano insieme e non separati. Anche se questo significato spesso non è per niente bello.

coma in nola
Un angolo di disagio riqualificato

Oggi che ricorrono questi due anniversari così importanti per uno stato americano non ancora in cima alle attenzioni di chi governa, Nola ci ha rivelato che, in fondo a un flusso ininterrotto di contraddizione e fascino, rimane sempre qualcosa di semplicemente vitale che neanche la più furiosa delle piogge riesce a lavare via: di fianco a quell’angolo di disagio lassù c’è un liceo in cui i ragazzi imparano le arti e ogni giorno dipingono o ballano o recitano. Ancora un po’ più giù sulla stessa strada c’è una galleria d’arte che in realtà è un garage dove si producono quadri che definire esuberanti è troppo poco. Su per la via che percorre questo ragazzo in bici qui sotto c’è un altro liceo, questa volta dedicato solo alla musica, che nei weekend diventa un centro di ritrovo per i musicisti e vi lascio immaginare cosa non accade lì dentro.

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Le case del quartiere Bywater, uno dei più colpiti dagli uragani

C’è una canzone di tanti anni fa – che è la stessa che dà il titolo a questo post – che racconta di un uomo che deve lasciare New Orleans, ha la valigia pronta, una barca che lo aspetta, sa che probabilmente non tornerà più e non vuole partire. Mentre il ritornello canta le cose che dovrebbe fare e la bellezza che dovrebbe lasciare, le strofe descrivono il suo amore per la città e per le donne che la abitano. Tra queste, facile da perdere se non si è alla ricerca di una risposta come sono io, c’è una frase che dice così: Do it wrong, ’til I do it right.


Fallo sbagliato finché non lo fai giusto. Vivi le tempeste finché non ne esci. Balla e canta finché qualcuno non ti sente. Apri la tua casa ai buoni perché i cattivi già li conosci. Fallo sbagliato perché alla fine lo trasformerai in giusto.


Vivi New Orleans, babe, perché per il giusto c’è sempre tempo.

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