Gli occhi di Seattle sono verdi: assorbono i boschi che hanno intorno e riflettono l’argento della baia su cui la città si adagia. Gli occhi di Seattle sono smeraldo: abituati alla pioggia incessante, quando il sole li tocca brillano di una lucentezza che porta via il fiato. Gli occhi di Seattle sono chiari, spesso anche opachi: hanno pianto molto, e piangono ancora in qualche giornata d’inverno troppo fredda e bagnata.
Ai margini della cultura e del commercio del paese per molti – troppi – anni, isolata dalla frenesia e dal movimento che muoveva l’America durante gran parte del Novecento, Seattle, la città principale dello stato di Washington, l’angolino più estremo dell’occidente americano, sotto il Canada e verso il Pacifico, Seattle, la città-isola che sognava di volare con l’unica industria che per tantissimi anni ha dato lavoro alla sua gente, la Boeing, Seattle – sporca, trucida, grunge, comatosa come la definisce uno dei suoi scrittori – oggi non ha più occhi timidi né sopracciglia che tradiscono imbarazzo. I tempi sono cambiati, gli occhi degli altri sono su di lei, c’è chi la sogna e la desidera. C’è chi la guarda e la agogna come una volta accadeva a chi della luce non aveva certo paura, la California.
Gli occhi di Seattle oggi sono sotto i riflettori, alcuni riflessi si muovono verso il suo passato, altri solo verso il futuro. Ed è proprio questa via, nel mezzo tra due spinte opposte, che conquista chi incrocia il suo sguardo: una via che durerà poco, che brucia di un’energia che si sta già esaurendo e che però nei giorni di buona riesce ancora a farti credere che persino la pioggia non è poi così male qui. Anche lei si ferma a lasciare che gli occhi si riempiano di bellezza, ogni tanto.
E poi c’è quella cosa lì, che sta al fondo degli occhi di Seattle e che qualcuno chiama passato, ma che passata non è mai per davvero. C’è quella cosa lì, che è una sottile vibrazione di cui brillano solo gli occhi smeraldo di questa città in tutto il mondo, che è quell’onda magnetica che gravita intorno alla pancia già all’atterraggio in aeroporto, che è quella nota che suona in ogni strada e in ogni angolo anche quando non si sente.
La spinta che porta Seattle verso il futuro è fatta di tecnologia, digitale, capitale, turismo, immobili che costano sempre di più. Ma la spinta che invece porta verso il suo passato, verso l’eredità, le radici, quella cosa inestirpabile che ha fatto conoscere Seattle prima a se stessa e poi a noi è fatta di una cosa sola: la musica. E la musica è spirito, colora i muri e gli animi, guida la mano degli street artist e le idee dei politici, salva la vita agli homeless (che sono tantissimi) e dà il benvenuto ai turisti, ferma il tempo in un eterno 1992 e omaggia la cultura in un perpetuo dialogo con il pop, i musei, le sculture e i locali.
La musica di Seattle risuona ancora nelle onde del Puget Sound, nelle librerie e nei libri, nelle nuvole sopra la testa, nella casa di Kurt Cobain nascosta nel verde, nelle macchine di tutti quelli che vengono qui a dirgli semplicemente “mi manchi”, nel salotto di Eddie Vedder che forse è la città intera per quanto i Pearl Jam qui sono amati e trattati da amici, nelle locandine sui pali, nelle serate in cui suonano i diciassettenni incazzati, nei negozi di dischi grandi come isolati, nelle magliette della gente, negli adesivi degli Alice in Chains ancora attaccati sui cessi, nelle chitarre che nei negozi portano il nome di Jimi Hendrix, nelle fanzine che davvero sembrano ancora gli anni Novanta.
Certo, una volta tutto questo era molto, molto di più. Però ecco, gli occhi di Seattle raccontano una cosa vera: a vivere di nostalgia si piange e basta. Forse il futuro è accecante, ma non ci tradirà troppo se continuiamo a guardarci dentro.
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