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3 giugno 2013 – No Surrender

Immagine del redattore: La McMusaLa McMusa

L’ultimo post di questo blog risale a quasi un mese fa, era il 10 maggio e io scendevo lungo la West Coast dopo aver lasciato indietro Chicago e il Central Illinois. Oggi sono a casa, il viaggio è finito, vado in pace. Il viaggio è finito, ma non i racconti di me in quel viaggio pazzesco: come se fossi ancora lì, pian piano ricomincerò a scrivere, ma – questa volta – senza la strada che mi chiama e mi prende e mi allontana dal pc e mi si rotola dietro e davanti ed è stato tutto così stupendo.

Sono tornata lo scorso weekend, neanche mi ricordo il giorno perché tutto era molto confuso e il jet lag è una cosa che fa malissimo ai ricordi e al sonno. Mi ricordo, però, che ad aspettarmi a Milano c’era Bruce. Era il 3 giugno 2013, il giorno che Bruce mi ha riaccolto in patria, il giorno che Bruce mi ha preso a calci nello stomaco supplicandomi, incitandomi, rimproverandomi, cantandomi di non arrendermi. Proprio sulla porta di casa mia, di ritorno da casa sua. Mi ha gridato di non battere in ritirata, perché il bello viene proprio adesso, quando i sogni nuovi che hai imparato a sognare non puoi più lasciarteli scappare.


bruce a san siro

In alto la bandiera americana (c’era anche quella italiana, dall’altro lato del palco), Bruce canta, si agitano cuori, padri, figli e altre sessantamila persone.


No Surrender è la canzone che io e i miei amici abbiamo ascoltato in macchina sulla Torino-Milano, pregando tutti i santi che quella sera Bruce ce la cantasse. Non la canta spesso ai concerti a cui andiamo noi. Prima di No Surrender, nell’album Born in the USA, c’è I’m on Fire, una canzone che mantiene lo stesso ritmo e la stessa struttura musicale per tutta la sua durata. Bruce la canta piano e a me piace moltissimo. Ai miei amici non tanto. Quasi quasi saltano traccia per arrivare subito all’amata No Surrender, ma io riesco a frenarli.

Autostrada, parcheggio, controllo biglietti, posizionamento subito dietro il pit.

Primi cori, secondi cori, le prime timide alzate sulle punte perché comunque io ai concerti non vedo mai un tubo, terzi cori, Bruce esce. Boato. Minuti interi, lunghissimi minuti interi di grida, bandiere italiane che svolazzano sottopalco e una dichiarazione d’amore di cui hanno ormai parlato già tutti: “Our love is real”, enorme, sugli spalti, in bianco, rosso e verde. Grandi ragazzi, lassù avete fatto un ottimo lavoro.

Della prima ora di concerto le canzoni che ricordo di più sono American Land, perché la volevo tanto, e Atlantic City, perché era tra le nostre non preferite, ma quando Bruce l’ha finita io mi sono girata verso il mio amico Enrico, ci siamo guardati e, cazzo, aveva fatto da dio anche quella. Il tempo scorre lento, c’è ancora luce se guardi in alto. Mi fumo la prima sigaretta del concerto, sono sudata marcia.

Quando rimetto via l’accendino nella tasca dello zaino, Bruce sta parlando in italiano. In italiano. Non arrotola le erre e non finisce tutte le parole in i. “Questa è la quinta volta che suono a San Siro. La prima volta era il 1985, era il tour di presentazione dell’album Born in the USA. Per onorare quel nostro primo incontro stasera lo suoneremo tutto, suoneremo tutto Born in the USA!” Io lì ho ceduto. Prima il cuore, poi le gambe, poi gli occhi.

Nel 1985 io avevo 3 anni. Per i successivi 28 sarei cresciuta ascoltando quell’album più di tanti altri, ballando e cantando quell’album come i pazzi, e tu stasera mi fai un regalo che neanche sai. Non potevo esserci quel giorno a San Siro, ero troppo piccola, ma tu oggi mi fai un regalo che neanche sai.

L’ha cantato tutto, dall’inizio alla fine senza sosta, per quasi un’altra ora.

Ed ecco la prima, epica e traditrice immagine: su Working on the Highway Bruce si scatena, balla, fa girare la chitarra su e giù per la schiena, ride, dio quanto ride, non la smette più, di ridere e suonare quella chitarra come un forsennato. Tanto forsennato che a un certo punto si graffia un braccio. Io non so se anche gli altri intorno a me hanno caricato quest’immagine di così tanto significato come ho fatto io, ma, quando il maxischermo ha mostrato il suo primo piano, quell’avambraccio così bello e potente sanguinava e Bruce cantava e rideva. Ecco, per me quell’immagine è stata il rivelarsi del rock’n’roll, della passione e la fatica, della dedizione e il duro lavoro, il sangue del volercela fare a tutti i costi e la roccia che alla fine, ma solo alla fine, rotola morbida. Un’epifania infinita.

Sono visibilmente emozionata.

I’m on Fire, il primo pianto, silenzioso e automatico. Come se qualche ora prima ci fosse stato anche lui, in macchina, a sentire i nostri discorsi scemi. No Surrender, il secondo pianto, gridandoglielo in faccia a braccia alzate, questa volta, che gli stavo facendo la promessa che lui voleva. I’m Goin’ Down, la passo a ricordare quando la ascoltavo da ragazzina e pensavo sempre a uno che mi piaceva tantissimo. Dancing in the Dark, sono piena di gioia per chi è sul palco con lui e la band, non piango più, ridiamo tutti di armonia pura.

E’ sempre il 3 giugno 2013, le 22, più o meno: manca ancora un’ora e mezza. Vorrei tanto che Bruce facesse Darkness on the Edge of Town e The Ghost of Tom Joad, ma non le fa. Fa, però, We Are Alive, benissimo. E fa pure – ovviamente – Born to Run, su cui a tutti, anche a chi è sul palco, piace tanto ballare. Ormai non c’è più nessun’altra emozione o parola che non sia: “Incredibile..”, scuotendo la testa con – appunto – incredulità, lentamente e con la bocca all’ingiù, ma gli occhi eccitati.

Io ero a posto, a quel punto, accontentata dal vedere tutti i miei vicini di concerto ballare sorridenti Twist and Shout, come da copione (e pensare che Bruce, accidenti, solo tu riesci a far ballare i ragazzi così bene, io ogni volta che vorrei ballare così con loro non so perché ma fanno i timidi..), e dall’ultima, pura risata con la ragazza di fianco a me: sul più classico dei ritmi rock’n’roll Bruce ci fa abbassare tutti a terra, anche loro sul palco si sdraiano tutti, e io ovviamente mi abbasso.. da destra mi arriva una voce quasi violenta: “Ma stai su adesso, no? Non puoi non approfittare dell’unico momento in cui puoi vedere qualcosa!!” Scoppio a ridere: sono una perfetta idiota, ma se Bruce parla io obbedisco diligentemente!

Siamo alla fine. Bruce presenta la band, le luci sono accese, siamo tutti bellissimi e sfatti. Bruce saluta la band, uno a uno, abbracciandoli. Sono stati divini. Lui non se ne va, però, non rientra nei camerini. Lui resta. C’è ancora qualcosa da fare.

Il 3 giugno 2013 a San Siro Bruce ha fatto 7 bis e 1 bibis. Ha cantato in totale 34 canzoni, ha cantato l’America e la sua storia di contraddizioni e deliri, certo, ma anche gli insuccessi e i casini delle nostre vite, la meraviglia dell’essere qui e dell’essere vivi, la paura di non farcela più. Poi, quando tutto era già immenso e pieno, ha detto solo: “Ho suonato in tantissimi posti nella mia vita, ma questo è speciale. You are special, I keep you in my heart every time”. E ha suonato, semplicemente, Thunder Road, chitarra, voce e armonica. Da solo su quel palco che è lo stesso da 30 anni, con le luci accese e tutte le nostre eloquenti e irrefrenabili lacrime a fare brillare lo stadio.

Anche lui era commosso. Era da solo sul palco, a luci accese, e cantava Thunder Road con la dolcezza che si usa solo con chi si ama.


PS: questo post – che doveva essere tutto tranne che questo nella mia mente, ma poi mi sono fatta prendere e amen – è dedicato soprattutto al Masticone, che gli ho detto che mi sarei fatta viva e poi invece non l’ho fatto e secondo me lui non sta passando un buon periodo e una birra con lui la dovevo bere. Ci sarà modo di rifarsi, prometto.

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